Una famiglia che amava lo sport
Sono nato a Napoli, nelle case popolari in Via Stadera, nel quartiere di Poggioreale, il 28 gennaio del 1959, in una famiglia che dire povera è dire troppo poco: eravamo cinque maschi e due femmine, insomma, sette bocche da sfamare. Ma, nonostante le difficoltà, c’era una passione che ci univa tutti: amavamo lo sport. Mio fratello Mario andava in palestra per imparare la boxe e, una volta a casa, mi insegnava quello che si può insegnare a un bambino di otto anni.
Io apprendevo con facilità, anche se ero minuto; avevo una forte predisposizione e Mario se ne accorse subito. Fu lui il mio talent scout. Un po’ più grande, cominciai a fare delle prove, affrontando in strada i miei coetanei, ma non facevo a botte; già allora cercavo di batterli con la velocità e l’eleganza.
A casa provavo i passi e le posizioni sul balcone o davanti allo specchio.
La Fulgor Napoli
Poi, finalmente, dopo tanto insistere, a undici anni, Mario, che era appena rientrato dalla trasferta in Germania con la Nazionale dilettanti, mi portò il primo paio di guantoni, dicendomi di preparare il borsone e di andare con lui. Quando arrivai nella sua palestra per la prima volta, sceso nella “grotta” che era la Fulgor Napoli, un tempio del pugilato, mi innamorai della bellezza del gesto tecnico e fu un amore per la vita. Compresi in quel momento che quello sarebbe stato il mio destino. La Fulgor era una specie di scantinato umido e infestato dai topi, nei Quartieri Spagnoli, ma per me era il posto più bello e affascinante del mondo. Sul ring ero sotto gli occhi di Geppino Silvestri, un tranviere che era il maestro migliore in città: lui mi ha insegnato che la boxe non è forza bruta ma, innanzitutto, velocità, movimento di gambe, strategia, riflessi, equilibrio e scelta dei tempi. Devi saper cogliere l’attimo. Mi raccomandava di muovermi sempre, di coprirmi bene – il campione non deve prendere pugni in faccia, altrimenti che campione è? – e di sferrare il colpo solo quando ero sicuro.
La boxe come mezzo di riscatto
Una caratteristica della boxe è che rappresentava una forma di rivalsa contro l’emarginazione: non era, infatti, una disciplina elitaria e, a quel tempo, era possibile per chiunque di infilare i guantoni praticamente gratis.
Il pugilato era per me, come per tanti ragazzi come me, un mezzo di riscatto, per il quale serviva una forte motivazione che permettesse di sopportare tutte le rinunce e i sacrifici necessari per praticarlo.
L’impegno è tutto
Le mie vittorie per Ciro
Cominciai presto a scalare le classifiche nazionali. Lo facevo anche per mio fratello Ciro: lui era una promessa del calcio, lo voleva il Napoli, ma il cancro se l’è portato via a 15 anni. Eravamo quasi coetanei. Gli dedicavo tutte le mie vittorie. Andai in finale nel Campionato novizi e persi ai punti, ma imparai quella dura lezione. E il successo arrivò. A diciassette anni, a Torino, nel 1976, divenni campione italiano dilettanti (lo fui in tutto tre volte). Il mio primo titolo italiano rimane ancora oggi il mio ricordo più bello. A diciotto entrai nella nazionale; in Italia non avevo più rivali. Divenni campione europeo in Irlanda. Entrai poi nel Gruppo Sportivo Carabinieri: così avevo anche uno stipendio e le Olimpiadi si fecero più vicine. Vinsi l’oro olimpico a Mosca, nel 1980, e la Coppa Val Barker come miglior pugile di quelle Olimpiadi.
Lo sparviero
Ho raccontato la mia vita a mio nipote, che è un grande scrittore, e così è uscita la mia autobiografia: si intitola Sparviero, cioè il mio soprannome quando facevo il pugile.
Fui chiamato così a causa del mio modo di combattere: lo sparviero è un rapace molto agile. Io sul ring ero appunto come uno sparviero, esile ed elegante, uno tutta tecnica, ma, al tempo stesso, un vero rapace, perché appena l’avversario commetteva un errore, per lui non c’era più niente da fare.
La carriera da professionista
Nel 1981 sono diventato professionista e sono cambiati anche i carichi di lavoro, perché tra i professionisti gli incontri hanno molte più riprese. Come professionista, sono stato campione italiano nella categoria superleggeri, campione europeo sia nei superleggeri che nei welter, campione mondiale nei superleggeri: in particolare, nel 1983 conquistai il titolo europeo nei Super leggeri (e, nel ’90, nei Welter). Poi, nel 1986, divenni Campione del Mondo. L’incontro che mi portò alla vittoria nel campionato del mondo è rimasto negli annali della boxe: quindici round massacranti, di puro scontro fisico, contro l’argentino Sacco.
Nonostante la preparazione per il mondiale fosse stata durissima, e portata avanti senza cedimenti, alla dodicesima ripresa ero sfinito, mentre l’avversario sembrava essere una macchina da guerra: instancabile. Nessuno poteva immaginare che ce l’avrei fatta: dovetti dar fondo a tutte le mie energie.Le sfide più importanti della mia carriera, le più toste, sono state la finale olimpica e quel titolo mondiale. Sono sceso definitivamente dal ring nel 1992. Da professionista ho disputato 59 match, con 57 vittorie e due sconfitte. Lasciata la boxe come pugile, ho guidato la nazionale italiana alle Olimpiadi, nel 1996 ad Atlanta e nel 2000 a Sidney.
Gli insegnamenti della boxe
Interprete del cambiamento
Il cambiamento non mi spaventa, anzi, ha un ruolo essenziale nella nostra vita. Sono impegnato su molti fronti: ho inciso un disco, ho recitato in un film e a teatro, ho una palestra. E ho creato, con altri campioni napoletani, un’associazione che si chiama “Milleculure”, con cui aiutiamo i ragazzi a diventare, proprio grazie allo sport, dei buoni cittadini. Il futuro è nelle mani dei giovani: abbiamo il dovere di fare qualcosa.