Da subito un amore infinito
Ho cercato la mia verità, l’ho fatto attraverso l’arte, un amore infinito. Sono nato a Cittanova nel 1948 e già a 5 anni, come fanno molti bambini, iniziai per strada a fare dei segni sull’asfalto, in maniera primitiva, con il gessetto, senza capire perché li facevo. Era allo stesso tempo un gioco e una scoperta continua: disegnare mi dava modo di creare delle cose che prima non esistevano, era un miracolo.
La mia era una famiglia proletaria che cercava ogni giorno di affrontare i suoi problemi di sopravvivenza e all’arte non ci pensava minimamente. Mia madre aveva un grande senso armonico del colore: mentre dipingevo entrava in stanza e capitava mi dicesse che in un punto c’era troppo rosso e questa cosa mi dava fastidio soprattutto perché aveva ragione; mio padre, invece, mi ripeteva che facendo l’artista sarei morto di fame, ma non ostacolò mai la mia passione.
Le passioni sfuggono alla ragione, ti innamori di qualcosa perché è già dentro di te. A dieci anni iniziai a studiare dal Maestro Deleo, docente in pensione dell’Accademia di Liegi; a tredici dipingevo delle cose già abbastanza complesse: ero capace di fare una copia di Vermeer, di Raffaello o di Michelangelo.
Lontano dalla Calabria tra scenografie, costumi e pittura
Nel 1964 partii dalla Calabria con una decina di paesaggi fatti su compensato perché la tela non potevo permettermela. Andai in Piemonte e cominciai ad occuparmi della decorazione di alcune chiese.
Quattro anni dopo, insieme a un amico, decidemmo di fare un viaggio. Andammo a Parigi al Museo d’Arte Moderna, dove vidi i miei primi Picasso, Matisse, Brâncuși: ne rimasi folgorato, sembravano dei soli calati nella stanza. E lì ho capito che la pittura era un’altra cosa…
A Roma, negli anni ’70, iniziai a lavorare per il teatro e per la televisione come scenografo e costumista. Questo fu molto importante per la mia pittura: in teatro, attraverso le scenografie, potevo fare dei grandi quadri che si muovevano sul palcoscenico insieme ai personaggi, dei quali usavo i costumi come indicazioni di colore in movimento.
Le prime personali
Negli anni ‘70 nella capitale c’erano i maestri della cosiddetta “Scuola di Piazza del Popolo”, legati alla Galleria Soligo: pittori come Schifano, Turcato, Festa, Angeli… Ma io ero arrivato a Roma con un’idea completamente diversa dalla loro: a me interessava che la materia utilizzata diventasse essa stessa spazio; mi affascinavano artisti con una profondità e con una visione differenti, gente come Fontana e Burri. Tano Festa, ad esempio, era estremamente diverso da me. Ci raccontavamo storie infinite che facevano parte del nostro contemporaneo perché la storia dell’uomo è talmente piccola e breve che finisce in pochissime cose. Comunque proprio nella Galleria Soligo, nel 1978, venne allestita la mia prima mostra romana dal titolo “Trasparenze”.
Quelli furono anni di intensa sperimentazione: provai a dipingere usando agenti come il vento, la poggia, il fuoco, e materiali come la calce, il cemento e la carta straccia oltre alla tela. Scoprii che quest’ultima, se non utilizzata come supporto, si offriva come materia: piegandola, venivano alla luce il suo carattere intimo e la sua trasparenza. Le opere di questo periodo furono presentate in occasione della mia prima personale, nel 1975, presso la Galleria AxA di Firenze.
I dipinti piegati
Nel 1990 l’incontro con Tommaso Trini, uno dei personaggi di maggior rilievo della critica d’arte italiana, ha segnato l’inizio delle rassegne relative ai dipinti piegati: essi, infatti, furono presentati proprio nel ’90 nella personale “Opere recenti” (per la quale non feci che riprendere e sviluppare le tele piegate già abbozzate in piccole dimensioni sin dal 1976). Ma c’era una novità rispetto al passato: le piegature, espandendosi nello spazio e non più soltanto sulla superficie del quadro, divennero delle vere e proprie installazioni, giungendo così al loro esito più naturale. L’idea delle Piegature era nata da un ricordo infantile: per togliere il malocchio mia madre teneva al collo un piccolo involucro opaco di stoffa nera. Ma la cosa veramente importante, cioè l’atto del piegare grandi tele dipinte, la scoprii per caso in teatro: un giorno mi trovai a osservare il fondale di un cielo stellato che avevo dipinto e che i macchinisti stavano piegando per riporlo via; era come se la volta celeste sprofondasse; di piega in piega il fagotto si rimpiccioliva e alla fine non restò che un piccolo panno di circa 80 centimetri di larghezza.
L’emozione che ebbi nel vedere quel cielo che si stava trasformando in un fagotto fu indescrivibile: era come un buco nero che assorbiva immagine ed energia. Scoprii che puoi dipingere un paesaggio, un colore, piegarlo e portatelo via. Per tutta la vita. E questo non è un fatto mentale: diventa un fatto pratico, vero, concreto. Da lì partì una lunga riflessione sull’arte e sulle sue espressioni in relazione alla vita. L’arte riflette sulle cose, e, paradossalmente, è un andare a vuoto dello sguardo intorno a ciò che resterà sempre invisibile. L’arte rende l’invisibilità della visibilità. Disegno i miei cieli stellati perché mi portano in altre dimensioni, mi portano a un cielo altro. Se vogliamo raccontare le cose didascalicamente abbiamo altri strumenti, ma l’arte va sempre oltre, l’arte va in profondità.
Dalla Calabria in Italia e nel mondo
Vivo e lavoro da tanti anni in Calabria, a Taurianova, un paese del reggino dove ho uno bellissimo studio in un palazzo del centro storico.
La mia regione è per me un punto fermo: fino al 1974 sono stato responsabile per il settore Arte dei Centri Servizi Culturali CIF, mentre dall’89 al ‘95 ho insegnato all’Accademia d’Arte drammatica.
Mi sono particolarmente care alcune iniziative calabresi legate al mio lavoro: come la personale allestita presso il Castello Aragonese di Reggio Calabria, con l’ampia retrospettiva “La pittura piegata”, e l’antologica “Cesare Berlingeri, Materia” 1975 – 2005, a cura di Philippe Daverio, presso il Complesso Monumentale di S. Giovanni, a Catanzaro, entrambe del 2005.
Molto significativa anche la rassegna dal titolo “Compenetrazione”, allestita 2014 presso la Galleria Nazionale di Palazzo Arnone a Cosenza: un’iniziativa che mi ha dato la possibilità di progettare le mie installazioni in rapporto con le opere di alcuni grandi maestri del Seicento, in una sorta di dialogo “muto”, ma non per questo meno intenso e vitale. Negli anni ho realizzato tante personali e collettive. Non potrei ricordarle tutte: Firenze, Roma, Milano, Catania, Messina, Padova… Ma ci sono state diverse mostre anche fuori dall’Italia: nel 2006, ad esempio, al MUDIMAdrie di Anversa ho proposto un altro ciclo dei miei lavori nella personale intitolata “I Corpi”. Tra il 2007 e il 2012 ho viaggiato molto per gli allestimenti delle mie mostre: da Tokio a Rio de Janeiro, da Tel Aviv a New York fino a Pechino. Nel 2017, infine, ancora gli Stati Uniti, con una doppia esposizione a Miami.
L’eccellenza nell’arte
Quando guardi l’opera di un artista o leggi una poesia e ti vibra dentro qualcosa …quella è un’eccellenza. Credo che l’eccellenza debba parlarti. I quadri sono silenziosi ma ti parlano con una voce interiore che ti risuona dentro, se sei capace di ascoltarla.
Il successo è avere dubbi continuando ad essere se stessi e a inseguire la propria visione. Si vive nel dubbio costante, nell’incomprensione costante: nel momento in cui si è capiti si è finiti, nonostante l’arte aiuti l’uomo a conoscersi meglio.
Ci siamo costruiti tanti di quegli specchi illuminati da tutte le parti che abbiamo perso il concetto dell’ombra e con essa il concetto di mistero. La pittura agisce sulla forma con il silenzio. Non me ne frega niente della piega in sé, l’arte non è narrazione, non è racconto: è forma!
Tra le pieghe della “creazione”
Per me l’artista è colui che inventa una nuova forma. Non bisogna guardare le pieghe, ma il quadro. Io spero che chi osserva una mia opera non guardi solo la piega, ma faccia un viaggio all’interno di questa struttura cercando il mistero che ha dentro di sé.
Le mie opere diventano un corpo colore, un corpo segnico dove all’interno si racchiude il mio tempo, il mio istante. Il momento della creazione è il momento del vuoto. Un momento di purezza, di nulla. Se c’è il vuoto puoi creare; nel buddismo il vuoto è il simbolo della conoscenza perfetta.
L’ arte
L’arte è un attimo di purezza tra l’uomo e la materia. Ed è anche quello che diceva Leonardo da Vinci: ombra e luce. La mia piegatura è un dialogo tra l’ombra e la luce.
L’arte è come prendere un biglietto alla stazione per fare un viaggio dove non sai la direzione né se ritornerai. Senza l’arte non si potrebbe vivere: l’uomo si distingue dagli altri esseri perché fa arte; ha questa capacità di prendere una zolla di terra o un’altra materia e di trasformarla in poesia, se ne è capace. E questo è un miracolo.