L’infanzia in Sicilia
La Catania della mia infanzia era quella dell’immediato dopoguerra: nato nel ’38, a 5, 6 o 7 anni capivo abbastanza per comprendere che quelli erano tempi difficili, nei quali era necessario ricostruire. Allora non stavamo proprio a Catania, ma ad Augusta, perché mio padre, ufficiale durante la guerra, era di stanza in quel porto. Da ragazzino ero un monello, una che marinava la scuola per giocare a pallone in Piazza Duca di Genova. L’Italia del tempo era meravigliosa: con al fondo un senso di pulizia e anche di innocenza; i rapporti erano autentici, ci si aiutava di più, forse, perché la guerra era appena finita.
Il richiamo dell’arte non tardò a farsi sentire. In uno dei miei primi tentativi artistici, sarò stato un bambinetto di 10 o 12 anni, stavo colorando un paesaggio su una tavoletta, quando mi accorsi che era finito il bianco; non mi persi d’animo: andai in bagno, presi il dentifricio e con questo allungai il po’ di colore che era rimasto. Questo per dire che se dall’infanzia qualcosa ti si muove dentro, tu lo senti. Insomma da sempre sono stato molto attratto dalla fantasmagoria dei colori sulla tavolozza, tant’è vero che mi divertivo a stenderli per avvertire il brivido della luce. Accostarsi all’arte è stato per me naturale come respirare.
Dopo la guerra mio padre cessò di fare l’ufficiale e riprese il suo lavoro: non avendo potuto fare il cantante, come avrebbe desiderato, pur dotato di una bellissima voce – per una famiglia della borghesia siciliana, con grandi professionisti al suo attivo, impensabile tanta frivolezza – si era laureato in Scienze Economiche e Commerciali. Ma continuava ad essere un uomo sensibile, che mi incoraggiò negli studi artistici quando si accorse che quella era la mia strada. Del resto, se pure non fossi riuscito, avrei potuto sempre insegnare. Questo, fortunatamente, non fu necessario.
Il trasferimento a Milano
Crescendo, quando cominci a fare studi specifici, capisci se sei solo uno studente o se hai un po’ la testa e l’anima dell’artista. L’attrazione verso Milano l’ho sentita proprio da giovane, all’inizio degli anni sessanta: per uno studente che si ciba delle suggestioni evocate dalle riviste d’arte, quello fu un richiamo irresistibile. In quegli anni, effettivamente, la città era un faro internazionale, una vera fucina: c’erano pittori come Manzoni, Castellani, Bonalumi, Dadamaino, Colombo, Simeti e vi operava l’artista contemporaneo che io considero il più grande di tutti, Lucio Fontana. Mi trasferii nel 1963 e lì cominciò la mia riflessione sull’essenza della pittura. Nel 1966 partecipa al Premio San Fedele e, nel 1968, alla Galleria Bergamini, feci la mia prima personale.
La riflessione sulla pittura
La mia pittura, all’inizio, fu molto influenzata dal concettualismo minimalista e dalla lezione di Lucio Fontana. Bisogna tenere presente che in Italia gli anni Settanta furono caratterizzati, in generale, da un vero e proprio “sconvolgimento” stilistico. Il quadro, inteso come un insieme inscindibile di tela e di cornice, stava mostrando il suo limite, perciò sulla superficie cominciarono a comparire estroflessioni o tagli. Le mie tendenze pittoriche si chiarirono in quel periodo, proprio agli inizi degli anni Settanta: in questa fase, nella quale tentai di creare un legame fra tradizione e innovazione, la mia attenzione era rivolta, in particolare, alla superficie pittorica e alle sue “vibrazioni”. Sono sempre stato un artista non figurativo, aniconico. Indagavo, allora, sull’idea di geometria non euclidea; a partire da opere come Topologie e Punti molli, rispettivamente del ‘71 e del ‘72, procedendo alla ripetizione di una stessa forma, ero spinto verso una riflessione sul linguaggio pittorico e sulle sue infinite possibilità (riflessione che, variamente declinata, mi ha accompagnato fino ad oggi come una costante).
I monocromi e la corporeità della pittura
Nel 1973, attraverso un processo di “sottrazione”, una sorta di sintesi assoluta, arrivai al monocromo”, dove 7 o 8 tonalità di un solo colore si increspavano sulla superficie del quadro, quasi fossero il respiro stesso della pittura. Tali opere, intitolate semplicemente Pittura, cui seguiva l’iniziale del colore usato (BL per blu, GR per grigio, R per rosso ), testimoniavano la volontà d’indagare sul problema percettivo dei colori fondamentali, di quelli complementari e dei grigi. Già dal ’74-’75, in luogo della tela classica, cominciai a usare una flanella bianca, non preparata. Questa, toccata dalla pittura, assumeva una consistenza diversa, stimolando il piacere della seduzione, giacché la pittura ha una natura “corporea”, femminile. Lavoravo su delle forme modulari accostate, per esempio tre quadrati, costruite con un telaio rivestito di flanella o, in qualche caso, di pelle di daino; in tal modo avevo introdotto un altro elemento che poi diverrà fondamentale nella mia opera: la tattilità.
Le disseminazioni
Poi, nel ’76, venne proprio meno il concetto di quadro: il muro entrava nella pittura e tutto insieme diventava opera. Fu una svolta decisiva: destrutturai il quadro attraverso la divisione del suo perimetro in elementi angolari circoscriventi il vuoto interno della parete (“rettangolo tagliato”). Infrangere il concetto stesso di quadro in frammenti era l’esito “necessario” e “disperato” di un percorso legato alla storia dell’arte europea, italiana in particolare, e al peso “schiacciante” di ciò che era stato prima: dopo questa storia, nella quale avevano operato i grandi della tradizione pittorica (da Giotto a Masaccio, da Piero della Francesca a Caravaggio), l’unico gesto possibile era quello di “pensare” la pittura, non più di “farla”, conferendole un nuovo senso.
Da allora, il mio focus si è spostato all’intera superficie e allo spazio complessivo; avevo abbandonato l’idea convenzionale di superficie e di bidimensionalità dell’opera. Nascevano le mie prime “disseminazioni”: cercando di riscrivere una mia nuova sintassi del dipingere, i frammenti di pittura erano lanciati verso la parete col gesto del seminatore. La parete stessa, dunque, perdeva il suo status neutrale e diventava coprotagonista, accogliendo elementi di colore declinati nelle forme più diverse, come lanciati, per lo più, lungo un percorso non rettilineo ma lievemente ad arco.
All’inizio le “disseminazioni” erano costituite da pochi elementi; poi, col passare degli anni fino al tempo presente, questi elementi si sono moltiplicati, in modo talvolta consistente: fluttuano e migrano in piccole o grandi formazioni, corpi di pittura in cammino nello spazio. I miei lavori usano per lo più i colori fondamentali (rosso, blu, giallo, nero, bianco e grigio) ma anche quelli complementari e sono fatti di materiali “ansiosamente duttili”, fisicamente tattili nel colore che pulsa di vibrazioni luminose: ho scoperto poi, via via, nuovi materiali e procedimenti, che mi hanno consentito di dare un corpo a quello che dipingo. Ho inventato una “tecnica mista”, risultante da vari materiali amalgamati che, dipinti, assumono una pelle sensualmente tattile, quasi una specie velluto. Per fare questo, ogni mia opera necessita di una lavorazione lunga e laboriosa: le opere le vedo solo quando le monto. Ma, sin dall’inizio, è già tutto nella mia testa.
L’evoluzione
Per quanto riguarda le diverse fasi delle disseminazioni, posso dire in particolare che, fino al 1983, le strutture modulari erano rivestite di flanella. Nel 1987 esse hanno lasciato il campo a forme irregolari. Le scaglie sono diventate rotonde, ovali, rettangolari, oppure corone circolari, sempre con i margini slabbrati e con una superficie che evidenziava il solco delle dita impresso sulla materia. È come se, dipingendo, la mia pittura si autogenerasse solidificando la pennellata, si desse un corpo, accrescendo dall’interno le possibilità del dipingere stesso.
Questa pittura dotata di “corpo” si organizza sopra la parete secondo due andamenti uguali e contrari: ora lungo un ampio campo di forze centrifughe, ora, invece, secondo una potente forza centripeta. Dal 1994 ho gradualmente abbandonato le forme dai contorni slabbrati a favore di strutture aventi un aspetto più regolare. Al presente la croce ha assunto una funzione chiave perché sono proprio le croci a permettere le grandi disseminazioni, che esprimono più propriamente il mio modo di “fare pittura”.