«Anche il retail sta cambiando. Ormai non si può più vendere solo attraverso le gioiellerie tradizionali, bisogna fare i conti con i consumatori di nuova generazione, investire in e-commerce e in strategie social», prosegue il direttore di Ieg. L’Italia infine deve valorizzare l’eticità del suo gioiello.
«I lavoratori, nel nostro paese, hanno conquistato dei diritti, hanno paghe adeguate. — ricorda Facco — Le aziende sono sottoposte a norme ambientali e prestano attenzione ai materiali preziosi con cui si crea il gioiello. Tutto è tracciato e tracciabile. Elementi che, se messi a sistema ed enfatizzati, possono costituire un valore aggiunto che molti competitor dei paesi asiatici hanno più difficoltà ad offrire». La minaccia al gioiello made in Italy arriva infatti dall’Asia. In questi anni sono i produttori del Far East che hanno dato più filo da torcere agli italiani. Soprattutto sul mercato statunitense. «Non competono ad armi pari. Spesso non sono sottoposti al pagamento dei dazi all’importazione, a cui è sottoposta l’Italia — ricorda il vicepresidente Cibjo — E i loro prodotti hanno prezzi inferiori per via del costo del lavoro più basso ». Così, mentre i ricchi americani continuano a comprare il gioiello italiano, la classe media in questi anni ha optato per un gioiello più low cost. Ed è qui che l’Asia vince. Lo zio Tom continua comunque a trainare la crescita del giro d’affari dei gioiellieri italiani. Nei primi nove mesi del 2017 le esportazioni in quel paese sono cresciute del 21 per cento. Del 16 per cento quelle di gioielleria preziosa. Bene anche i mercati europei, dove il gioiello made in Italy ha continuato a crescere. In Francia l’export di gioielleria made in Italy sale nei primi nove mesi del 44 per cento. In Germania del 14 per cento. In Spagna del 22 per cento. Il distretto dell’oro che ha beneficiato di più della ripresa è stato quello di Alessandria, che nei primi nove mesi ha superato Arezzo per valore del fatturato con ricavi pari a 1,5 miliardi di euro. Il giro d’affari del distretto aretino è stato di 1,4 miliardi. Quello del distretto di Vicenza di circa 1 miliardo di euro. Bene, ma non benissimo. Secondo gli esperti, se il settore pian piano riuscirà a tornare ai livelli del 2008, cioè agli anni precedenti al crollo della Lehman Brothers, difficilmente recupererà lo splendore del 2000.
«È proprio cambiato il consumatore e si sono modificate le logiche di consumo», afferma Facco. Da quegli anni ad oggi c’è stata una contrazione mondiale della quantità di oro lavorato impressionante: si è passati dalle 3mila tonnellate alle 2mila. Mille tonnellate di differenza nel giro di diciassette anni. «Questo ha imposto un cambio strategico nelle dinamiche planetarie della produzione e nella distribuzione», prosegue il vicepresidente Cibjo. In ogni caso, il 2017 ha dato segnali inequivocabili di ripresa a livello mondale. Uno scenario diverso rispetto al 2016 che era stato un anno difficile con ulteriori cali nella domanda globale di oro. Secondo i dati dell’Osservatorio sul settore orafo-argentiero, i primi nove mesi del 2017 mostrano, in generale, un aumento della domanda globale pari al 14 per cento e un innalzamento dei livelli di produzione, con un tasso di crescita del 18 per cento rispetto allo stesso periodo del 2016. «Tutto ciò soprattutto grazie a Usa, Russia, Cina e India», sottolinea Facco. Questi ultimi due paesi sono i maggiori consumatori di gioielli e da sole acquistano il 60 per cento dei preziosi prodotti al mondo. In Russia il consumo di gioiello aumenta dell’11 per cento. Un fenomeno che ha permesso agli italiani di esportare di più verso quel paese, con una crescita del fatturato, nei primi nove mesi del 2017, superiore al 6 per cento. In grosso calo invece, il consumo di gioielli nel Regno Unito, in parte per effetto della Brexit. La flessione è stata del 19 per cento nel 2017, in controtendenza rispetto al contesto globale. Brillano meno rispetto al passato, per quanto riguarda gli acquisti di preziosi, anche gli Emirati Arabi. Qui il calo della domanda di gioielleria in oro è comunque lieve: appena del 2 per cento.