La mia famiglia
Sono stato abbastanza fortunato: la mia era una famiglia simpatica. Non so quanto, da un punto di vista educativo, possa aver inciso positivamente però; insomma ricordo con dolcezza gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, e fino a che sono rimasto in casa mi sentivo in qualche modo protetto e anche ascoltato. Che è poi quello che ognuno della mia generazione cercava.
Si, ho avuto una famiglia anche divertente, sotto certi punti di vista. “Una famiglia non proprio perfetta, in un’Italia tutt’altro che perfetta”.
La mia generazione
E se con la famiglia sono stato fortunato, lo stesso non può dirsi della generazione cui appartengo, che è, a mio avviso, particolarmente infelice. Noi non abbiamo fatto nulla di particolare, nessuna conquista, nessuna rivoluzione: abbiamo avuto delle cose non per nostro merito, ma per “bontà” altrui. Troppo giovani durante la guerra e la resistenza, e troppo vecchi nel ’68, abbiamo perso tutti i treni della Storia.
La mia è stata un’infanzia di provincia, quando la provincia era davvero provincia: in certi tempi (i miei, in particolare) un luogo valeva un altro e poco contava che tu fossi nato a Perugia oppure a Rieti. Avevano tutte certi difetti di fondo.
La provincia, come mi è capitato di dire altrove, prima ancora di essere un luogo, è un fatto culturale, uno stato d’animo, dove l’essere “perbene” era già una scuola di ipocrisia che ti induceva a simulare e non avevi altra scelta che adeguarti o fuggire. Io sono fuggito appena possibile. Ma, prima di fuggire, mi è toccato farci un po’ i conti.
“Gente perbene”
Ho raccontato della mia infanzia anche in un libro pubblicato nel 2012 che si intitola “Gente perbene. Quasi un’autobiografia”. Molti dettagli corrispondono in pieno alla realtà dei fatti; qualcos’altro l’ho inventato, perché non va bene che le persone mi identifichino in pieno col protagonista del libro.
Abitavo a Perugia, dove sono nato il 19 gennaio del 1936, in un rione chiamato, anche troppo benevolmente, Borgo Bello, composto di quattro villette (anche questa definizione è un po’ troppo benevola) che erano, in realtà, case coloniche mai utilizzate secondo la loro primaria destinazione d’uso.
I nostri vicini erano assolutamente improbabili e anche se non erano tipi che potevi incontrare a ogni angolo di strada, erano di certo tutta gente perbene, come noi, del resto.
Il liceo musicale
Il talento non mi mancava. Frequentavo il Liceo Musicale Francesco Morlacchi di Perugia, che oggi è conservatorio. Ero molto bravo. Qualcuno – forse esagerando, io non l’ho mai capito – diceva che ero un pianista prodigio e che, se mi fossi impegnato, per quelle che erano le mie potenzialità, sarei diventato un concertista di prim’ordine…
Ma c’era allora un concetto punitivo dello studio del pianoforte che mi umiliava e quindi, per smettere, feci una cosa terribile per uno di 9 anni: mi ferii apposta con un pezzo di legno. Una ferita alla mano – quella sinistra, eh – in modo da essere impossibilitato a suonare e a partecipare agli esami del secondo anno. Così mi sono salvato da una brillante carriera da virtuoso. E anche la musica si è salvata da un’invasione, diciamo così, spericolata.
Da Perugia a Napoli
Qualche anno dopo io e la mia famiglia lasciammo Perugia per andare a Napoli, dove mio padre era stato trasferito per lavoro – faceva il direttore di banca – e dove abbiamo vissuto 8 anni.
A Napoli ho fatto anche l’Università. Mi sono laureato in legge perché era una promessa fatta a mio padre: non lo so perché l’ho mantenuta, forse mi dispiaceva dispiacergli. Ma non è servito a nulla, non capivo niente di Legge né ho mai imparato alcunché. Presi 88 come voto di laurea, presentando una tesa di Diritto della Navigazione.
Una volta papà, nel corso degli studi, mi propose di darmi 300.000 lire (in quei tempi era una somma dell’altro mondo) in cambio di 5 esami. Io presi i soldi, poi di esami ne feci solo tre, e gli altri due feci finta di averli fatti.
I soldi mi servirono ad andare con gli amici in 600 nel Nord Europa, a caccia di svedesi (a quei tempi c’era il mito delle svedesi, per cui che fossero olandesi o danesi sempre svedesi li consideravamo).
Da Napoli a Roma
I miei primi passi nel mondo della carta stampata furono un po’ incerti. Come giornalista scrivevo delle cose inutili, pezzi di colore nella speranza di venire in qualche modo assorbito da quei meccanismi che, invece, erano molto lontani dalle mie possibilità di accesso. E partecipai a un concorso pubblico, come si faceva una volta, in RAI. Per questo concorso fecero domanda 36.000 persone in tutta Italia e i posti erano solo 50. Non so come riuscii a passare: la cosa aveva un che di miracoloso.
Così potei lasciare Napoli e andare a Roma, che è uno strano posto, dove si finisce per stare anche bene anche quando si sta male. In RAI mi davano dei compiti assurdi, uno più inutile dell’altro.
Il trasferimento a Milano
Meglio la brutta aria di Milano… cominciai a fare il battitore libero, la libera professione, cioè l’autore, e mi è andata bene, tutto considerato. L’ho fatto per tanti anni e continuo a farlo sporadicamente ma, insomma, è il mio mestiere.
Ho fatto decine e decine di trasmissioni, alcune anche storiche….insomma era il mio lavoro. Mi piaceva.. Avevo continuato a collaborare con la RAI perché non avevo scelta: la televisione e la radio erano gestite in regime di monopolio, quindi o stavi lì o cambiavi mestiere.
Alcune cose che ho fatto come autore nel corso degli anni mi sono rimaste impresse e ne vado abbastanza orgoglioso: per esempio la commedia “Mi pento con tutto il cuore”, che è una specie di dichiarazione d’amore per la mia città natale. Scugnizzi, Fantastico ’88, Canzonissima del ’68, quella con Mina, Panelli e Walter Chiari, che scrissi con Marchesi e Terzoli. Ah, scordavo il Festival di Sanremo del ‘99, quello con Fabio Fazio.
In realtà elencare ciò di cui vado orgoglioso mi imbarazza pure perché giudicare positivamente quello che si è fatto lo trovo poco elegante e anche difficile da scegliere. Tra le cose da citare, una parolina la merita, penso, il programma radiofonico Black out che, se non altro, è una delle cose a cui sono più affezionato. È il programma più longevo nel palinsesto di Radio 2 e la cosa, inutile dirlo, mi fa molto piacere.
Come eravamo
Ho avuto dei maestri straordinari, che non avevano nessuna intenzione di fare i maestri, ma lo sono stati, da Marcello Marchesi a Ennio Flaiano, da Zavattini a Bianciardi: uomini coi quali ho lavorato e a cui ho dato la mia stima e la mia attenzione fino alla fine.
Ho raccontato mille volte di loro: girano più o meno sempre gli stessi aneddoti. Certo oggi è tutto un po’ infiacchito, si è tutto un po’ sbrindellato, questo sì. Rimpiango i grandi polemisti, i grandi satirici, gli scrittori, cioè gente che sapeva guardare le cose cogliendone il lato grottesco e rivoltando un po’ tutta la zuppa per arrivare ad una conclusione tutto considerato positiva. Che dire? Oggi questo Paese ha paura del merito. E, in generale, il merito costringe gli “schiavi” a comportamenti ancora più faticosi, quindi la faccenda è complicata. Dobbiamo prendere le cose per come ci appaiono, senza illuderci troppo. L’ eccellenza è la spensieratezza del paese, che è un difetto sotto certi punti di vista, ma anche un pregio sotto altri. E quindi noi siamo abbastanza fortunati, tutto sommato. Non abbiamo la pesantezza dei teutonici, che pure hanno molti lati positivi.. noi abbiamo un atteggiamento nei confronti della vita, del lavoro, del rapporto con il prossimo un tantino più leggeri. Coraggio, il meglio è passato! Questa è una frase da spendere con facilità anche eccessiva. È un classico, flaianeo come matrice, ed è anche vero. Il meglio è passato: forse; noi, però, speriamo sempre di no. Ora ho lo sguardo rivolto ai prossimi passi che faranno i miei figli.